Un quadro sulle immunitą penali |
Approfondimento a cura di avvocato del Foro di Trani
Nel nostro ordinamento giuridico, l’art. 3 c.p. delimita l’ambito di validità personale della legge penale. Dal precetto normativo si evince che ‘la legge penale italiana obbliga tutti coloro che, cittadini o stranieri, si trovano nel territorio dello Stato’; il co. 1 dell’art. 3 c.p., letto in combinato disposto con l’art. 4 co.2, individua cosa deve intendersi con la locuzione ‘territorio dello Stato’, ai fini della legge penale. Con una definizione tautologica, seppur utile a identificare i 3 elementi costitutivi dello Stato inteso in senso moderno (Territorio, Sovranità, Popolazione), le norme succitate definiscono il ‘territorio dello Stato’ come il luogo appartenente alla Repubblica e ogni altro luogo su cui si estende la sovranità dello Stato, comprese le navi e gli aeromobili italiani, eccettuato il caso in cui, in base al diritto internazionale, ad essi è applicabile una legge territoriale straniera. La definizione di territorio incardina l’elemento distintivo dei cittadini rispetto agli stranieri: agli effetti della legge penale, i cittadini sono coloro che appartengono, per origine o per elezione, ai luoghi soggetti alla sovranità dello Stato e gli apolidi che risiedono nel territorio dello Stato, mentre sono stranieri coloro che appartengono alla sovranità di un altro Stato e gli apolidi residenti all’estero. Il principio di obbligatorietà della legge penale, sancito dall’art. 3 c.p., va
Le eccezioni individuate dall’art. 3 c.p. vengono preferibilmente definite, dalla giurisprudenza e dalla dottrina dominanti, ‘immunità penali’ in luogo di ‘prerogative’; con tale lemma si vuol fare riferimento a una congerie di situazioni disomogenee e irriducibili ad unità, per ratio, fonti, contenuto e forma, il cui effetto finale comune è l’inibizione del potere punitivo dello Stato: infatti, i c.d. ‘immuni’ sono sottratti all’applicazione della sanzione che, tuttavia, continua a vincolare tutti alla sua osservanza. La norma penale continua ad essere coercitiva nei confronti di tutti ma gli ‘immuni’ non subiscono la sanzione penale che l’ordinamento giuridico ricollega alla commissione di un fatto tipico, colpevole e non assistito da una causa di giustificazione.
Oltre l’effetto finale, le immunità non hanno elementi in comune che consenta la ricostruzione delle medesime in termini di vera e propria categoria dogmatica, la quale, al di là del nomen juris, per essere tale, deve avere la capacità di poter aggregare al suo interno elementi e situazioni che, seppur disomogenei, siano tuttavia contraddistinti da un nucleo significativo comune che vada al di là del solo effetto finale, che si sostanzia per taluni soggetti determinati di andare esenti dalle conseguenze penali astrattamente previste e collegate a comportamenti tipici. Anche sull’elemento comune vi è confusione: non e chiaro se l’effetto delle immunità penali si esaurisca nel campo del diritto penale sostanziale o in quello del diritto penale processuale o in entrambi; se l’esplicarsi dell’effetto è autonomo e cumulativo o se l’uno segue l’altro; se gli effetti preclusivi siano durevoli temporanei, se cioè sono destinati ad esaurirsi con la cessazione della carica o a protrarsi oltre. Secondo l’approccio tradizionale, la trattazione unitaria è possibile laddove si rifletta sulla circostanza che, il più delle volte, la posizione giuridica di determinati soggetti emerge solo in relazione al combinarsi degli effetti connessi ai diversi tipi di immunità. Tradizionalmente, si è soliti distinguere le immunità:
L’art. 3 c.p., riconoscendo le immunità penali, rappresenta il condensato della riflessione penalistica del ’30: infatti, attraverso la previsione delle guarentigie, in materia penale, e ancorandone il fondamento nel diritto pubblico interno e nel diritto internazionale, il legislatore dell’epoca ha effettuato un bilanciamento fra due interessi confliggenti, bilanciamento che poi è stato assicurato in maniera più ampia dalla Carta costituzionale: da un lato, il rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento e dei diritti inalienabili della persona richiede che l’autorità giudiziaria non rimanga inerte di fronte agli illeciti per ragioni di giustizia e di soddisfacimento delle vittime (in questo senso, anche il principio processualpenalistico dell’obbligatorietà dell’azione penale da parte del pubblico ministero, principio che confligge con le recenti spinte riformatrici in vista dell’introduzione nel processo penale della c.d. mediazione); dall’altro lato, l’esigenza di tutela di particolari funzioni costituzionali o delle relazioni internazionali, fonte dei rapporti amichevoli ed economici fra le nazioni, impone una limitazione della potestà punitiva statuale, nelle forme ritenute più idonee in relazione alla consistenza dell’interesse confliggente protetto. E’appena il caso di accennare che le immunità non rappresentano affatto un privilegio per la persona fisica cui si riferiscono ma di prerogative inerenti la funzione esercitata e, quindi, valide solo nei limiti tassativamente fissati dalla legge.
Era questo un modo per sottolineare che nel Meridione d’Italia, unificata da poco meno di un quarantennio, dominava Casa Savoia, dominio che ancora alla fine dell’800 – come sopravvive nei canti dell’epoca – era fortemente messo in discussione dalle divisioni di briganti filoborbonici e filo- pontifici (era il tempo del non expedit di papa Leone XIII), proprio in funzione antagonista alla casa Savoia. Addirittura, negli Stati preunitari e, in particolare nel Regno delle Due Sicilie, il reato di lesa maestà era punito con la pena di morte. In questo reato, la soglia punitiva era anticipata al tentativo: vittima ‘eccellente’ di questo delitto – di opinione, pare – fu il giovane Emanuele De Deo, giovane studente di giurisprudenza, di Minervino Murge, presso l’ateneo partenopeo, il quale fu impiccato all’età di 22 anni, il 18 ottobre 1794 in piazza del mercato a Napoli, con l’accusa - in base ad una delazione indimostrata - di aver cospirato alla vita del re Ferdinando IV di Borbone, insieme ad altri esponenti della Repubblica Partenopea (tra gli altri, Mario Pagano, Eleonora De Fonseca Pimentel).
Mentre non vi sono dubbi sulla insussistenza di alcuna prerogativa di natura ‘sostanziale’ per l’attività extrafunzionale, penalmente rilevante, del Presidente della Repubblica, maggiori perplessità emergono, nel silenzio della Grundnorm, in ordine alla possibilità di questi di invocare particolari guarentigie di natura processuale, al fine di ottenere un’esenzione, sia pur temporale, dalla giurisdizione. Alla luce delle norme contenute negli artt. 9 comma 3 e 10 comma 1 della l, 5 giugno 1989, n. 219, il Parlamento in seduta comune, qualora ritenga che il reato sia diverso da quelli previsti dall’art. 90 Cost., dichiara la propria incompetenza e trasmette gli atti all’autorità giudiziaria la quale, se dissente dalla dichiarazione di incompetenza del Parlamento, ordina la trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale per la risoluzione del conflitto; da questo assunto normativo, sembra potersi agevolmente escludersi la sussistenza di qualsiasi impedimento di tipo processuale, ancorchè temporalmente correlato alla durata del mandato, che renda il Capo dello Stato non assoggettabile alla giurisdizione ordinaria per i fatti penalmente rilevanti commessi al di fuori dell’esercizio delle proprie funzioni. La riprova di quanto appena affermato sta nel fatto che l’art.1 l. 20 giugno 2003, n.140 – c.d. Lodo Schifani, ex Lodo Maccanico – benché dichiarato incostituzionale dal Giudice delle Leggi con la pronuncia n. 24 del 20 gennaio 2004 per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., voleva introdurre, nell’ordinamento giuridico italiano, una norma che prevedesse un’esenzione temporanea dalla giurisdizione e una sospensione dei processi in corso, durante l’espletamento del mandato, per le più alte cariche istituzionali dello Stato, per fatti di reato anche extrafunzionali e/o prefunzionali; non avrebbe senso introdurre una norma siffatta se già esistesse. Le guarentigie previste per il Capo dello Stato si estendono al Presidente del Senato, quando esercita le funzioni di Presidente della Repubblica, per tutto il tempo della durata della supplenza.
L’art. 68 Cost., al primo comma, prevede che ‘i membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni’. Tale previsione mira a garantire il libero esercizio della funzione parlamentare e a rafforzare il divieto di mandato imperativo, sancito dall’art. 67 Cost. Questa è un’immunità c.d. assoluta, in quanto esclude ogni forma di responsabilità, sia civile che penale, e si discute dell’ampiezza della tutela costituzionale. Si registra la presenza di due tesi: secondo la tesi ‘restrittiva’, nell’alveo della guarentigia rientrano le opinioni espresse – e lo stesso per tutte le c.d. attività intra moenia – nell’esercizio di atti istituzionali ‘tipici’, univocamente riconosciuti come propri della funzione parlamentare mentre la tesi ‘estensiva’ afferma che la garanzia de qua abbraccia ogni manifestazione del pensiero, anche se atipica e informale, posta in essere nell’ambito dei rapporti generali con l’opinione pubblica e l’elettorato. Tale dualismo dottrinale ha avuto la sua eco nella giurisprudenza di legittimità la quale, sin dagli anni ’90, ha tentato di ricostruire il significato e la portata dell’espressione ‘esercizio di funzioni’, di portata costituzionale ma fatta oggetto di 19 decreti legge mai convertiti, emanati a seguito della l. cost. 29 ottobre 1993, n.3, nel tentativo di dare attuazione all’art. 68, comma 1. La l. cost. n. 3/93 ha riformato l’art. 68 Cost, intervenendo in particolar modo sull’istituto dell’autorizzazione a procedere, circoscritta a limitate e tassative categorie di atti (cfr. art. 68 commi 2 e 3 Cost.). Evidenziando la necessità della rigorosa ‘connessione’ tra il fatto commesso e la funzione esercitata, la Corta Costituzionale si è orientata nel senso di ritenere applicabile l’art. 68 Cost agli atti c.d. ‘atipici’ o ‘extra moenia’ qualora risulti una ‘sostanziale corrispondenza’ e una ‘ contestualità cronologica’ tra l’opinione espressa, ritenuta lesiva dell’onore, e un atto parlamentare tipico. In sostanza, la dichiarazione esterna sarebbe coperta dalla garanzia soltanto quando sia meramente riproduttiva di un atto tipico interno. In questo contesto, dottrinario e giurisprudenziale, è intervenuta la legge 20 giugno 2003, n. 140 il cui art. 3 comma 1 (lodo Schifani) ha inteso dare finalmente attuazione al dettato dell’art. 68 Cost., per renderlo immediatamente operativo sul piano processuale. Prevede infatti il predetto art. 3 che l’immunità deve applicarsi non soltanto agli ‘atti tipici’, quali le opinioni espresse nell’esercizio delle ‘funzioni parlamentari tipiche’, ma anche ad ogni altro ‘atto atipico’, di divulgazione, di denuncia politica, di ispezione o di critica, espletati al di fuori delle sede parlamentare, che sono coperti dalla garanzia dell’insindacabilità purchè siano connessi dalla funzione parlamentare. La genericità della formula legislativa non ha risolto la questione dal punto di vista normativo, rimettendo all’interprete il delicato compito di intendere il significato del lemma ‘connessione’ a seconda dell’orientamento – dottrinario e giurisprudenziale – che si ritiene di preferire. Alcune Corti di merito hanno ritenuto che la legge ordinaria estendesse in maniera illegittima – dato il diverso rango delle fonti normative delle immunità di cui si tratta - l’ambito della insindacabilità dei parlamentari. Con la pronuncia n. 120 del 16 aprile 2004, il Giudice delle Leggi, in maniera non del tutto chiara, ha affermato che la norma tacciata di incostituzionalità (art. 3 co. 1 lodo Schifani) si è soltanto limitata a rendere esplicito il contenuto della norma costituzionale (art. 68 Cost.) perché l’estensione agli atti non tipici deve sempre risultare in connessione con l’esercizio di funzioni parlamentari che rappresentano, da un lato, il presidio delle prerogative parlamentari e, dall’altro, del principio di uguaglianza e dei diritti dei terzi. Abolito l’istituto dell’autorizzazione a procedere, i parlamentari, in base alla lettera dell’art. 68 comma 2 Cost. non possono, senza autorizzazione della Camera di appartenenza, essere sottoposto a perquisizione personale o domiciliare, né può essere arrestato o altrimenti privato della libertà personale, o mantenuto in detenzione, salvo che sia colto nell’atto di commettere un delitto per il quale è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza. Analoga autorizzazione, continua l’art. 68 Cost., al comma 3, è richiesta per sottoporre i membri del Parlamento ad intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni e a sequestro di corrispondenza. La ratio della c.d. improcedibilità, in caso di mancata autorizzazione della Camera di appartenenza, consiste in una prerogativa processuale ed è limitata al periodo di permanenza della carica. Il fondamento di tali tradizionali garanzie della libertà personale e dei nuovi limiti all’attività di indagine, viene individuato nella necessità di salvaguardare l’indipendenza del Parlamento, in sé e nella persona dei singoli deputati, nell’ottica della separazione dei poteri, in un moderno Stato di diritto, e in vista dell’esigenza di sottrarre i parlamentari a procedimenti squisitamente persecutori. Pur tuttavia, va evidenziato che, se, da un lato, si vuol proteggere l’attività del Parlamento e dei singoli componenti da indebite influenze da parte della magistratura, è altrettanto vero che, in mancanza di criteri di riferimento stabili e normativamente previsti, continua ad essere difficile bilanciare in modo equilibrato i diversi interessi in gioco, interessi contrastanti ed equiordinati: se è vero che i parlamentari meritano protezione da arbitrari interventi da parte della magistratura è parimenti vero che questa protezione rischia di affermarsi a scapito dell’interesse, parimenti rilevante sul piano dei valori costituzionali, a una pronta ed efficace repressione dei reati. I giudici della Corte Costituzionale godono, per effetto dell’art. 3 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n.1, dell’immunità analoga a quella dei parlamentari, con esclusione della rerogativa di cui all’art. 68 comma 3 Cost. L’autorizzazione a procedere è data dalla medesima Corte. In base all’art. 122 comma 4 Cost., i membri dei consigli regionali godono soltanto della garanzia dell’irresponsabilità per le opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni. Benchè voci isolate in dottrina hanno cercato di estendere ai consiglieri regionali le prerogative di cui ai commi 2 e 3 dell’art. 68 Cost., l’orientamento maggioritario nega l’estensione, in via analogica, delle guarentigie parlamentari. Gli appartenenti al Consiglio Superiore della Magistratura non rispondono per le opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni, ai sensi dell’art. 5 legge 3 gennaio 1981, n.1. in base alla norma dell’art. 3 c.p., la fonte delle immunità può rinvenirsi anche nel diritto internazionale, dovendosi intendere con questa espressione tanto le norme del diritto internazionale ‘generalmente riconosciuto’, cui l’ordinamento giuridico italiano si adegua automaticamente, senza il ricorso a norme interne di adattamento, per effetto dell’art. 10 Cost., quanto le norme contenute nei trattati e le convenzioni internazionali i quali diventano esecutivi in Italia a seguito di ratifica a mezzo di un atto normativo interno. Tuttavia, il carattere rigido della Carta costituzionale e il principio della sovranità popolare impediscono che l’adeguamento automatico previsto dall’art. 10 Cost. possa consentire la violazione dei principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale.
La persona del sommo pontefice è considerata ‘sacra e inviolabile’ – esattamente come prevedeva l’art. 3 Statuto Albertino – dall’art. 8 Trattato del Laterano. Si tratta di una immunità assoluta, che affonda le sue radici nella Storia – la breccia di Porta Pia, il XX settembre 1871, la legge delle guarentigie – dell’annessione dello Stato della Chiesa al neonato Regno d’Italia; essa è riconosciuta al pontefice non solo quale figura di capo di uno Stato estero ma anche come massimo esponente della cristianità. I capi di Stato esteri e i Reggenti che, in tempo di pace, si trovano nel territorio dello Stato beneficiano di un’immunità assoluta che si estende al seguito e ai loro familiari. Il presidente del consiglio dei ministri e i ministri per gli affari esteri godono dell’immunità per tutti i fatti commessi nell’esercizio delle loro funzioni.
In base al Protocollo di Bruxelles dell’8 aprile 1965, i parlamentari europei godono della prerogativa dell’irresponsabilità e delle immunità riconosciute ai membri del Parlamento del loro Paese, nonché, sul territorio di ogni Stato membro, dell’esenzione da ogni provvedimento di detenzione o da procedimenti giudiziali, per la durata delle sessioni dell’assemblea.
Sono garantiti dall’immunità i giudici della Corte dell’Aja, in base a quanto stabilito dall’art. 19 dello Statuto della Corte medesima e, in misura ridotta, la stessa immunità sussiste per i giudici della Corte europea dei diritti dell’uomo (art. 2 Protocollo addizionale all’accordo sui privilegi e immunità del Consigli od’Europa). La convenzione del 15 giugno 1951, stipulata fra gli Stati dell’alleanza atlantica, ha stabilito che godono dell’immunità i membri e le persone al seguito delle forze armate della NATO di stanza nel territorio italiano che sono soggetti alle leggi e alla giurisdizione militare dello Stato di appartenenza. Anche i militari stranieri che si trovano sul territorio dello Stato italiano, con previa autorizzazione, godono di immunità. Un cenno merita la questione relativa alla natura giuridica delle immunità. Il problema non è di poco momento perché dalla soluzione dipende la collocazione della relativa categoria dogmatica – nei limiti in cui è possibile parlare di categoria dogmatica - nel sistema del diritto. Tante sono le differenti teorie avanzate sul punto. Intanto vanno respinte quelle teorie che tendono a considerare le immunità come eccezioni al principio di obbligatorietà della legge penale, sancito dall’art. 3 c.p., dovute alla particolare qualifica dei soggetti che non sarebbero destinatari dei precetti penali, perché esse sono contraddette dalle fonti normative costituzionali (artt. 54 e 91 Cost.) e internazionali (artt. 41 e 55 Conv. Vienna) che stabiliscono che anche i c.d. immuni sono tenuti al rispetto della legge. Stessa censura va mossa nei confronti degli indirizzi dottrinali che propugnano la categoria dell’incapacità penale, intendendosi per capacità penale l’attitudine alla titolarità delle situazioni giuridiche sfavorevoli, perché, da un lato, si escludono dal novero dei destinatari della norma penale alcuni soggetti insuscettibili di osservare la norma penale e di soggiacere alle conseguenze sfavorevoli derivanti dall’inosservanza e, dall’altro, perché si crea una categoria dogmatica – gli incapaci – inutile a spiegare le ragioni della scelta del legislatore di sottrarli all’applicazione della pena. Un punto di partenza ‘coerente’ con l’eterogeneità delle immunità è rappresentato dalla distinzione fra immunità extrafunzionali ed immunità funzionali. Le prime, originando esclusivamente dal diritto internazionale, sono finalizzate a evitare che un soggetto, il quale agisca per conto dello Stato di appartenenza, subisca un processo da parte di una Stato straniero per un fatto attinente alla sua vita privata ma commesso in costanza di carica. E’ evidente la natura ‘processuale’ delle immunità le quali si sostanziano in mere esenzioni dalla giurisdizione dello Stato in cui l’immune si trova ad operare, limitate nel tempo al periodo di durata della missione. Le immunità funzionali hanno natura sostanziale (se derivano dal diritto internazionale comportano anche l’esenzione dalla giurisdizione) e perciò rientrano fra le cause personali di esclusione della pena: il fatto commesso dall’immune è un fatto di reato, tipico e perciò perseguibile ma, per ragioni di opportunità correlate al libero esercizio di rilevanti funzioni in ambito costituzionale o internazionale, non viene sanzionato. Quanto appena detto merita una esemplificazione. Se si pensa alle immunità ex art. 68 comma 1 Cost., applicando le due teorie alternativamente, si giunge a risultati opposti. Per la dottrina (Mantovani, uber alles) l’immunità in oggetto costituisce una causa soggettiva di esclusione della punibilità, espressamente prevista dall’ordinamento giuridico a tutela della funzione parlamentare, che lascia sussistere integra l’illiceità penale del fatto. Da tale assunto, deriva che è configurabile la responsabilità dell’extraneus per l’illecito commesso in concorso con il parlamentare essendo l’immunità circostanza riferibile al solo soggetto immune, di cui non può giovarsi il concorrente (ma anche Cass. pen., 11 aprile 2008, n. 15323 che ha affermato la responsabilità del direttore del giornale che, violando il precetto dell’art. 57 c.p., non ha impedito la pubblicazione della notizia diffamatoria, riportando l’intervista del parlamentare). Per la giurisprudenza di legittimità, l’immunità ex art. 68 Cost. costituisce causa di giustificazione che rende lecita la condotta. Partendo da questo diverso presupposto, in base alle norme sul concorso di persone (art. 119 c.p.), va esclusa la responsabilità dell’extraneus perché l’immunità rende lecita la condotta anche per tutti i concorrenti (così, Cass. pen., 24 novembre 2006, n. 38944 che ha assolto il direttore di una testata radiotelevisiva, il quale, secondo l’accusa, aveva patrocinato l’intervista al parlamentare che aveva rilasciato dichiarazioni diffamanti: essendo queste scriminate dall’art. 51 c.p., non sussiste illiceità del fatto neppure in capo al direttore).
Sul punto non vi è accordo: si afferma infatti che considerare le immunità come scriminanti vuol dire confondere la funzione – l’esercizio del potere/dovere a tutela di un pubblico interesse – e il reato – che non può consistere né nell’esercizio di un diritto né adempimento di un dovere. La
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